Johann Gottlieb Fichte

Vita

Fichte nasce in una famiglia poverissima della Prussia nel 1762, da genitori contadini. Il suo futuro lavorativo pareva destinato ad essere quello di un guardiano di oche, la sua principale attività da ragazzo.

Ma Fichte amava lo studio e, aiutato da un signore benestante del suo villaggio, prosegue la carriera scolastica, dapprima presso il collegio di Pforta, poi presso la facoltà di teologia delle università di Jena e di Lipsia. Il giovane filosofo subisce umiliazioni e difficoltà di ogni sorta in giovinezza: deriso dai compagni di classe più abbienti e poi, per guadagnarsi da vivere, costretto a lavorare come precettore privato in Germania e in Svizzera.

Ma il temperamento forte e risoluto di Fichte lo conduce a raggiungere, a mano a mano, i gradini più alti della sua carriera e formazione, guidato perennemente da un sentimento rigoroso, coerente e retto. Il suo pensiero è, dapprima, fortemente influenzato dalle opere kantiane, ed in particolare dalla Critica della ragion pratica. Fichte ne è talmente affascinato da recarsi a Konigsberg, per conoscere personalmente Kant e fargli leggere il suo primo manoscritto: Saggio di critica di ogni rivelazione.

Il riconoscimento pubblico della grandezza filosofica di Fichte non stenta ad arrivare e, dal 1794 al 1799, viene chiamato ad insegnare all’università di Jena. Sono gli anni più fecondi per la sua produzione letteraria e, tra le opere fondamentali, ricordiamo: Lezioni sulla missione del dotto (1794), Fondamenti dell’intera dottrina della scienza (1794), Sistema della dottrina morale (1798).

Accusato di ateismo, è costretto a dimettersi e si reca a Berlino, dove entra in contatto con le personalità romantiche più autorevoli dell’epoca. Durante l’occupazione napoleonica di Berlino, pronuncia proprio in quella città i Discorsi alla nazione tedesca (1807-1808), e infine, quando ivi viene fondata l’università, è chiamato a insegnarvi, fino a ricoprire la carica di rettore. 

Fichte si spegne molto presto, all’età di cinquantadue anni, dopo aver contratto il colera, ma la sua influenza sarà immensa e le teorie verranno riprese e rese celebri dal filosofo idealista Hegel. 

 

Fichte e l’idealismo dopo Kant

Fichte era un grande stimatore di Kant e da lui prendesse le mosse per elaborare teorie e punti di vista autonomi. Il grande distacco tra i due fu segnato dal modo in cui Fichte risolse l’annoso problema del “noumeno”. Molti filosofi seguaci di Kant, prima di Fichte, avevano evidenziato come non potesse esistere e fosse impensabile una “realtà in sé”, esterna al soggetto, da cui derivava la nostra conoscenza.

 

Fu però Fichte ad andare ancora più oltre, criticando l’"io" kantiano: quest’ultimo, infatti, aveva la semplice funzione di “ordinatore” di una realtà preesistente. Era un “io” finito, in quanto limitato nel suo agire dal noumeno, una realtà a lui estranea. Per Fichte l’“io” diventa “creatore”, infinito, ovvero è il soggetto che crea ogni cosa (dal punto di vista conoscitivo e materiale) e non è più condizionato da nessun tipo di vincolo. Questo riconoscimento del ruolo assoluto del soggetto, detto anche “spirito”, sancisce la nascita di una nuova corrente filosofica: l’idealismo. 

 

Prima di spiegare in che modo vada correttamente inteso l’“io creatore” di Fichte, sarà bene sin da ora esplicitare come per il filosofo scegliere di abbracciare l’idealismo fosse una scelta di vita, una questione prevalentemente etica. A suo parere, infatti, contrapposto all’idealismo c’era solamente il dogmatismo che, partendo dalla realtà esterna per spiegare il soggetto, limitava l’autonomia e l’indipendenza del singolo. Abbracciare l’una o l’altra filosofia significava, dunque, per Fichte essere dotati di un temperamento “fiacco” e passivo oppure attivo e votato alla libertà.

 

Idealismo etico di Fichte

Secondo Fichte noi esistiamo per un unico motivo, quello di agire, e il mondo esiste solo in quanto è il nostro “ostacolo”, lo “scenario” delle nostre azioni. In questo atteggiamento sta il particolare idealismo di Fichte, definito appunto “etico”, in quanto c’è il riconoscimento di un’assoluta superiorità della morale sull’aspetto conoscitivo.

 

L’io finito ha dunque una meta: l’affermazione assoluta della sua libertà, la vittoria sugli ostacoli. Abbiamo già detto come l’io finito non può mai realizzarsi completamente come Io puro, infinito ma, riprendendo le parole di Fichte: “non vale nulla essere liberi; cosa divina è diventarlo!”. Il senso dell’io sta dunque nello sforzo di incessante auto-perfezionamento di sé stesso (superando passioni e egoismi) e del mondo circostante: tendere, cioè, ad un mondo sempre più “umanizzato” e ad una società di individui liberi e razionali. Scrive a tal proposito il filosofo:

 

“L’uomo esiste per divenire egli stesso sempre migliore moralmente e per rendere migliore materialmente e (se consideriamo l’uomo nella società) moralmente tutto quanto lo circonda, conquistandosi così una felicità sempre maggiore”.

 

Ma l’uomo e il suo sforzo, nota il filosofo, non sono mai solitari, in quanto l’istinto sociale è imprescindibile: “L’uomo ha la missione di vivere in società; egli deve vivere in società”. Lo scopo dell’individuo risulta quindi essere sempre più liberi e rendere sempre più liberi tutti gli altri al fine di compiere “la completa unità e l’intimo consentimento di tutti i suoi membri”.

 

Per conseguire tale scopo, conclude Fichte, è inoltre necessario l’intervento del “dotto” cioè dell’intellettuale che, in quanto consapevole dei veri bisogni, non deve in nessun modo elevarsi superbamente al di sopra degli altri uomini ma, come guida e educatore, deve attivamente lavorare per il miglioramento morale di tutta l’umanità.

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